Marco Hagge è un giornalista Rai che si occupa di storia, cultura e paesaggio. Coordina il programma Bellitalia, la più antica rubrica sui beni culturali della Rai, in onda ogni sabato alle 11 su Rai 3. Con i suoi servizi Marco Hagge ha vinto numerosi premi, l’ultimo al festival del giornalismo di Perugia per Il mondo fatto a scale. Lo incontriamo nel suo studio nella sede Rai di Firenze.
Cerchiamo di ripercorrere la tua formazione. Sei laureato in lettere alla Scuola Normale di Pisa. Come ti sei avvicinato al giornalismo?
Mi sono occupato per la prima volta di giornalismo quando ho scritto la tesi di laurea, una delle prime tesi di semiologia. Mi fu suggerita dal prof. Giovanni Nencioni (accademico dei Lincei, presidente dell’Accademia della Crusca dal ‘72 al 2000 ndr), un uomo molto curioso su quelle che allora erano le ultime tendenze nel campo degli studi linguistico-letterari.
Che rapporto c’è tra storiografia e giornalismo?
Volevo approfondire la storiografia come genere letterario e studiare formalmente la prosa fattuale, quella che si propone di raccontare la realtà: accanto ai testi storici, avevo incluso nel corpus – come si diceva allora – anche articoli giornalistici di argomento calcistico. Insomma, prendevo un po’ in giro il giornalismo sportivo per far risaltare le differenze qualitative rispetto alla scrittura.
Sei tra quelli che pensano che il giornalismo, rispetto alla letteratura, sia un genere minore?
Le strategie narrative, in entrambi i casi, sono le stesse. Che scriva Machiavelli, Tucidide o l’ultimo giornalista di provincia, ritrovi più o meno gli stessi espedienti retorici. Ovviamente messi in atto meglio o peggio, in maniera più formale o più ruspante, ma anche il giornalista, come lo scrittore, deve mettere in ordine e nominare i fatti, deve riconoscere se questi costituiscono a livello narrativo, per esempio nel caso di uno scontro fra soldati, una vittoria o una sconfitta. Ma il giornalismo, a differenza della letteratura, cade più facilmente nel luogo comune.
Come hai iniziato a lavorare per la Rai?
In realtà, se devo essere sincero, avrei preferito la carriera universitaria. Nel ‘78 partecipai al concorso per l’allora costituenda terza rete della Rai, all’epoca si facevano ancora i concorsi… Vinsi il concorso e cominciai con un lavoro semi-giornalistico, facevo il programmista. Poi sono passato ai servizi giornalistici veri e propri. Nel fare questo lavoro ho cercato di tenere presente innanzitutto quello che avevo imparato teoricamente con la tesi: mai cadere nei luoghi comuni.
Dai servizi per il telegiornale cominci ad occuparti di documentari sui beni culturali: come hai scelto questa specializzazione?
Tra i corsi che seguivo alla Normale di Pisa c’erano quelli di una grande storica dell’arte, Paola Barocchi. Critici – bisogna dire – ce ne sono tanti, storici pochi. Grazie a lei mi sono appassionato alla ricerca delle fonti, alla scelta degli stili. Poi come giornalista ho avuto la fortuna di assistere ai restauri di opere d’arte, alle ristrutturazioni di complessi architettonici, alle ricostruzioni di interi centri storici.
Possiamo dire che da lì a realizzare programmi culturali il passaggio è stato naturale?
Ma sì, e poi l’arte visiva in tv viene bene, direi proprio che è la morte sua. Quella che viene male, alla televisione, è l’arte concettuale. Ti racconto un aneddoto. Un giorno – ma sarebbe meglio dire una notte – fui invitato in un museo in cui si entrava passando per un cortile buio. Chi aveva ideato il percorso intendeva far apprezzare al pubblico il silenzio mentre si passeggiava tra varie opere d’arte. Volevano che facessi un servizio. Feci presente che senza luce non si poteva far vedere alcunché in televisione, che la fotografia si chiama così proprio per questo… Mi risposero che non ci avevano pensato!
È vero che la cultura non aveva molto appeal in Rai?
Negli anni Ottanta nessuno voleva occuparsi di cultura. Quando c’era una riunione di redazione e si assegnavano i servizi, chiedevano quasi sempre a me di fare quelli di carattere culturale. I miei referenti erano gli assessori alla cultura, che erano considerati come degli zii strani di una famiglia, invece di occuparsi di strade o di sport continuavano a occuparsi di restauri.
Quando si riscopre il valore della storia, dell’arte, della cultura in tv?
Nel ‘93-’94 Alberto Ronchey, ministro per i Beni culturali nei governi Amato e Ciampi, vara alcuni provvedimenti per innovare il sistema-cultura italiano. La cultura diventa uno dei punti forza dell’identità nazionale dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, dopo gli attentati a Roma e a Milano. Dopo la notte delle bombe insomma si riscopre un rinnovato interesse per l’arte e la cultura.
Torniamo al tuo percorso: dal giornalismo generalista alla divulgazione culturale. Immagino che i tuoi primi servizi siano stati dedicati a Firenze…
Quando iniziarono i restauri dopo la strage, ero sempre agli Uffizi. Lì entrai nel giro dei tecnici, degli studiosi e degli esperti del settore, così specializzarmi è stato naturale. Nella missione della terza rete, come ti dicevo, c’era la cultura. Nel ‘79 realizzai un documentario in quattro puntate da mezz’ora ciascuna dal titolo Una cassaforte chiamata Toscana. L’idea era quella di mostrare che l’arte fosse qualcosa di radicato in un territorio accessibile a tutti, che la cultura non fosse soltanto tradizione storica, ma qualcosa che vive nel quotidiano, come un agricoltore che scopre una tecnica particolare…
Passano gli anni, realizzi centinaia di servizi fino agli anni Novanta quando ti assegnano il ruolo di coordinatore di Bellitalia, alla scoperta del Paese delle meraviglie recita il sottotitolo del programma. Com’è andata?
Anche con Bellitalia il lavoro si è affermato in modo casuale. Nel ‘99 la rubrica si sposta da Roma a Firenze e viene assegnata al sottoscritto. L’assegnazione è stata molto veloce quindi ho dovuto imparare un nuovo format di narrazione, oltre lo schema classico della voce fuori campo.
Parlaci di questa tecnica: cosa cambia rispetto ai servizi tradizionali?
In pratica s’impara a vedere l’argomento da un punto di vista nuovo. Cambia il linguaggio. Quando sei fuori campo ti rivolgi a un pubblico assolutamente indefinito. Registri la tua voce in uno studio asettico. Quando registri in campo, hai davanti – è vero – la telecamera, ma l’ambiente è concreto, l’occhio della telecamera è il tuo occhio. Racconti quello che si vede, come se ci fossero con te delle persone. Cambia in fondo anche l’oggetto della narrazione, perché lo vedi a tutto tondo, in 3D, non più come se fosse esposto in una vetrina.
A quale modello ti sei ispirato per i servizi di Bellitalia?
L’unico modello, anni fa, era Piero Angela, ma comunque non esiste un’originalità: tutto è già stato inventato, il problema è riuscire a scegliere il meglio. Nei miei servizi cerco di essere chiaro, per chi ha studiato linguistica la chiarezza viene prima di tutto. Una volta i colleghi anziani ti aiutavano, ti consigliavano. Se facevi un servizio per il Tg1, doveva essere di un minuto e dieci. Ti dicevano di andare subito al sodo e restare nei tempi. Se andavi lungo, anche solo per qualche secondo, rischiavi di non andare in onda. Direi che la difficoltà aumenta in modo inversamente proporzionale al tempo che hai a disposizione. Allora non pensi più a ridurre il discorso che hai in mente e che vuoi fare, ma lo riscrivi di sana pianta, con un’impostazione diversa e magari capovolta, in relazione al tempo e soprattutto al mezzo che utilizzi.
Hai accennato ai consigli di colleghi con più esperienza alla spalle. Svelaci un segreto.
Mi dicevano che per fare un pezzo ci vuole un buon inizio, una buona fine e il resto viene da sé. Se poi sai anche cosa mettere nel mezzo, detto tra noi, è meglio.
Una provocazione interessante. Ma i tuoi servizi sono anche ricchi di storie che sono dense di informazioni e particolari. Come scrivi i testi?
Ci vuole tempo e altrettanta preparazione. Pare che Flaubert abbia letto duecento libri per documentarsi e scrivere il romanzo Salammbô. Da un libro – diceva – tirava fuori un aggettivo. Il senso è che più materiale hai a disposizione, più puoi scegliere il meglio. In genere, per i miei servizi divido tutto in sedici punti, che sono i passaggi, le cose che voglio dire in un servizio che dura in media otto-nove minuti: è una regola che mi aiuta a tagliare i dettagli meno importanti. Sedici situazioni, nove in campo e sette fuori campo, mi sembrano un rapporto giusto per i servizi di Bellitalia.
Quando parli in campo e magari passeggi tra monumenti, paesi, o sei immerso nella natura, hai un’accuratezza e una precisione nel parlato simile a quella di un testo scritto. Leggi un testo mentre parli, lo leggi prima di registrare, o vai a braccio?
Prima raccolgo informazioni e guardo delle foto su internet o su pubblicazioni a stampa per farmi un’idea dei luoghi che posso raccontare. Quelli che ho già raccontato mi influenzano perché il pregresso conta, e permea i nostri discorsi. È come un repertorio che aiuta e sostiene. In genere preparo un brogliaccio basato sull’insieme dei miei appunti. Poi preparo una scaletta di massima. Sulla base delle condizioni che incontro al momento delle riprese e alle indicazioni dell’operatore, Claudio Francini, la modifico. Il resto viene naturale, mi lascio prendere dall’ambiente, dalla luce, dai profumi, eventualmente dai tic del mio interlocutore, e questo crea una particolare specificità.
Come scegli gli argomenti dei tuoi servizi?
Sulla base delle letture, o delle segnalazioni. Ne ricevo tante. Col passare degli anni sono le notizie che vengono a cercarti.
Abbiamo parlato della produzione, puoi dirci qualcosa sulla post produzione video?
Per Bellitalia i tecnici che si alternano al montaggio, Matteo Corti e Leonardo Pucci, scelgono insieme a me il ritmo, la musica, le transizioni. Quanto agli effetti speciali, ne usiamo pochi per una scelta stilistica, li utilizziamo solo se sono utili alla narrazione. Quando il racconto tiene, basta un montaggio ritmato con la musica giusta. Dopo le riprese dei vivi, dei discorsi in campo, controlliamo le immagini con un piccolo monitor o con l’anteprima della telecamera digitale. I fuori campo li registro in studio. Registrare fuori campo è cosa diversa dal parlare sul luogo, allora tanto vale marcare la differenza: il fuori campo rappresenta il momento della riflessione. Se fai finta di registrare come se fossi sulla scena, si percepisce in qualche modo la finzione perché è diverso il tono con cui parli, l’uso stesso delle parole.
Cosa significa per te lavorare come giornalista culturale nel servizio pubblico?
Per me è un privilegio fare questo lavoro perché mi sentire utile alla comunità. La cultura è un fatto di tutti i giorni, bisognerebbe riscoprirla nella sua dimensione quotidiana, e poi è divertente, ti aiuta a vedere il mondo in una maniera più acuta, non scontata. E poi sei in contatto con il meglio che è stato prodotto.
Consigli per chi si diploma qui al master in Multimedia e voglia intraprendere la professione?
Ho dei figli che hanno la vostra età. Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio, diceva De Andrè, quindi mi limito a qualche considerazione. L’importante è fare quello di cui siamo convinti. Bisogna evitare di avere rimpianti. È importante andare all’estero ma anche, in casa nostra, parlare con uno straniero. Credo sia utile parlare con chiunque perché non sai mai chi hai davanti, potrebbe essere la persona più saggia del mondo. Si impara da tutti. Aristotele diceva che la base della conoscenza è la curiosità. Per questa intervista, ad esempio, ero curioso di sapere cosa potesse interessarti, di scoprire le domande.
Allora te ne faccio ancora un’altra. Quali sono, secondo te, i limiti del giornalismo moderno?
Il maggiore mi pare la banalizzazione nelle interviste, ad esempio, a volte tutto si riduce a una raccolta di dichiarazioni, così il giornalista diventa l’asta umana dei microfoni, null’altro. È ormai la prassi del ci dica…. Un altro paradosso del giornalismo sta nel fatto che mentre il linguaggio fattuale dovrebbe avere il modo indicativo, assertivo, raccontare è successo questo, oggi nella fretta e nella superficialità si usa il condizionale che deriva dall’impossibilità di controllare le fonti in una rincorsa frenetica tra web, tv e testate online.
È che la notizia deve essere data subito…
La tempestività da sola non paga, ci deve essere anche qualità nell’informazione, un lavoro che sta a monte di documentazione e anche di verifica. È come se nella battaglia delle Termopili, il messaggero professionista, Filippide, incaricato di percorrere i 40 km che separavano Maratona da Sparta per portare il messaggio della vittoria, fosse andato via dalla battaglia mezz’ora prima della fine. Cosa avrebbe risposto a chi gli chiedeva chi avesse vinto? Forse noi…?.